Tradizioni

Un racconto del Venerdì Santo nella vecchia Portoferraio

di Alberto Zei

“Quando il vento tiepido della sera del Venerdì Santo di alcuni decenni fa, accarezzava le antiche mura di Portoferraio, sembrava portare con sé non solo il profumo salmastro del mare, ma anche un’eco di attesa, sospesa nell’aria come una promessa. Sul piazzale del Duomo, al calare del sole, una folla molto numerosa si radunava per conquistare i punti migliori da cui partecipare alla lunghissima processione della “Via Crucis”, che di lì a poco si sarebbe snodata lungo le principali vie della città. Le strade solitamente animate dal vociare dei passanti si facevano, in quelle ore, silenziose e raccolte, come se anch’esse si preparassero a un rito antico, radicato nella memoria e nella devozione popolare. Poi, a poco a poco, la quiete si increspava. Dalle porte del Duomo, finalmente, il popolo in attesa cominciava ad avanzare con un lento incedere di passi nel crepuscolo della sera.

Tra sacro e profano – La processione prendeva corpo, rischiarata dalla luce tremolante delle torce portate dagli “incappucciati”, mentre dalle finestre delle case comparivano i drappeggi più belli, offerti alla vista come segno tangibile della partecipazione delle famiglie all’evento sacro. Erano i “Neri”, i confratelli dell’antica omonima Confraternita, con i loro manti fluttuanti ad aprire il cammino alla Vergine. Ma in questa occasione, anche i “Bianchi”, nonostante il tradizionale antagonismo, prendevano parte alla cerimonia, in rappresentanza dell’altra parte della cittadinanza. La Madonna, portata a spalla con solenne reverenza dai volontari del luogo, sembrava vegliare sulla sua Portoferraio mentre la processione si snodava, lenta e solenne, lungo le arterie storiche della città.
A chi ha vissuto quegli anni, a chi conserva il ricordo di quell’evento tanto atteso nei decenni del secolo scorso, tutto nel ricordo apparirà come allora. Dalle finestre ornate a festa, gli sguardi si intrecciavano in un gioco di rimandi tra il sacro e il profano. Vi era la devozione genuina di chi cercava conforto e benedizione, ma anche un palpito laico, un sussurro di sguardi tra giovani e meno giovani, il vibrare collettivo di un rito che andava oltre la sola fede. Era la buona occasione per incontri furtivi, ammiccamenti, corteggiamenti da non perdere in quelle poche occasioni che a Portoferraio era difficile accorgersi.

L’ immancabile voce – Ma il cuore pulsante di questa notte speciale, ciò che la rendeva unica e indimenticabile, era un uomo: Ratti. Anima laica, eppure intimamente legata alle tradizioni della Chiesa e della sua Portoferraio, Mario custodiva dentro di sé un’eco remota, il riflesso di una rivalità antica, mai del tutto spenta che affondava le radici nei tempi dei Guelfi e dei Ghibellini e che ancora oggi, in forma più tenue, sembra talvolta riverberare nel tessuto sociale elbano, diviso tra “Bianchi” e “Neri”. Ma in quella sera egli diventava qualcosa di più: il cantore silenziosamente riconosciuto da tutti, l’interprete laico di un sentimento sacro, una voce che sapeva trasformare il dolore e la speranza di molti in un unico respiro collettivo. L’attesa, carica di tensione, cresceva passo dopo passo, prolungata con sapienza per amplificare la forza di quel sentire condiviso da cui, egli stesso traeva vigore.

E poi, all’improvviso, ecco levarsi nell’aria un suono inconfondibile: la laude tipica del Venerdì Santo, “Il piangi”, rivolto alla Madonna straziata per la morte del Cristo. Un lamento, un’invocazione e la sua intonazione che squarciava il silenzio con una vibrazione affilata. “Piaaaaangiiiiiiiii… o bella Signooora…”.

La voce di apertura a cui seguiva il coro, era quella di Ratti: un timbro metallico, profondo, che sembrava attraversare l’anima. Le sue onde sonore echeggiavano sulle mura dei palazzi lungo il tragitto della processione. Non era soltanto una questione di potenza vocale: in quel canto c’era qualcosa di ineffabile, una risonanza nascosta che agiva sotto la soglia della coscienza, avvolgendo la folla in una sorta di ipnosi collettiva.

Quel ritrovarsi insieme – La processione si interrompeva in brevi pause come se lasciasse spazio al silenzio stesso, diventato parte della preghiera. Poi, con la ripresa lenta della processione, guidata dagli incappucciati nel loro incedere solenne, la folla tratteneva il fiato. Tutti attendevano ancora quel gemito iniziale, che rappresentava il culmine laico di una liturgia profondamente religiosa. C’erano persino portoferraiesi che giungevano appositamente da Piombino e da San Vincenzo, attratti dalla processione del Venerdì Santo a Portoferraio anche per ascoltare quella voce che creava per alcuni — sì, davvero — una sorta di vibrante turbamento collettivo. Nessuno, per quanto si sforzasse, riusciva a imitarne l’acustica, quel timbro unico che apparteneva solo a lui.
E così, anche nel prossimo Venerdì Santo, per chi conserva la memoria di quelle notti magiche riecheggeranno i ricordi di un tempo in cui la cerimonia era insieme atto di fede e rito di comunità nonché, occasioni di incontri sospirati. Era un mosaico umano, pulsante, che componeva l’identità profonda di un’Isola. Uomini e donne, ragazzi e ragazze: ognuno con la propria voce, il proprio passo, contribuivano in coro a formare l’anima viva di Portoferraio. E in quel ritrovarsi insieme, solenne e potente, si raccoglieva l’essenza stessa di una memoria collettiva: un legame indissolubile tra sacro, profano e appartenenza a questa stessa Isola.
Anche quest’anno vi sarà la processione del Venerdì Santo. Molte cose sono cambiate. Non ci sarà più l’eco penetrante di quella voce irripetibile, né forse la partecipazione e compostezza religiosa di un tempo o la malizia di qualche incontro furtivo. Ma qualcosa di quell’antico rito sopravvive ancora. È lo spirito che vi aleggiava, quel bisogno profondo di sentirsi parte di una storia comune, di ritrovarsi, almeno una volta, sotto lo stesso cielo, ad ascoltare insieme il canto dell’anima di un’intera città”.

Alberto Zei

Una risposta a “Un racconto del Venerdì Santo nella vecchia Portoferraio

  1. Luciano Rispondi

    Bella descrizione, piuttosto realistica, tanto da farmi rivivere quella situazione durante la mia giovane età 10 -12 anni, dove tutto era fede genuina, profonda, un misto di magia e irrazionalità . Provo anche ora l’ansia con quel sapore di paura che le splendide voci del Sig. Ratti, Sig. Dini e forse qualcun’altro che non ricordo, facevano vibrare la mia anima nel riprodurre dentro un giovane cuore, la disperazione e il dolore che rappresentava quel momento…

    28 Aprile 2025 alle 9:16

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