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Elba,Telecardiologia: modernità che rassicura, ma non cura

di Alberto Zei

C’è un’idea che si va diffondendo con sorprendente facilità: che la telecardiologia possa rappresentare la risposta definitiva all’emergenza cardiologica dell’Isola d’Elba. È un’aspettativa comprensibile quasi seducente  perché la tecnologia offre immagini nitide, grafici ben disegnati, collegamenti istantanei. Tutto ciò crea una sensazione di presenza, quando in realtà si tratta soltanto di una proiezione a distanza. L’errore nasce proprio qui: nel credere che la visione equivalga alla cura, che il vedere sostituisca l’intervenire. Ma in medicina, e in cardiologia più che in ogni altro ambito, questa equivalenza non esiste. La telecardiologia può fornire un parere, mai un’azione. Può guidare, non può agire. E l’illusione che ciò sia sufficiente rischia di trasformarsi in una trappola pericolosa.

L’ecocardiogramma: non un’immagine, ma una competenza

Molti immaginano l’ecocardiogramma come un semplice “video del cuore”. In realtà, è un’arte prima ancora che una tecnica. Ogni immagine dipende dalla mano che regge la sonda, dalla sensibilità di chi la muove, dall’esperienza maturata in migliaia di esami eseguiti in prima persona. Un operatore non specializzato può generare tracciati frammentari, sezioni tronche, angolazioni sbagliate. Il cardiologo remoto, per quanto esperto, non può modificare ciò che non è stato acquisito correttamente. È costretto a basarsi su ciò che vede, anche quando ciò che vede non è pienamente affidabile. È come se si chiedesse a un restauratore di valutare un affresco attraverso una fotografia sfocata: la responsabilità finale ricade su di lui, ma il materiale su cui lavorare non è adeguato. Dietro uno schermo nitido, dunque, si nasconde una fragilità: l’immagine perfetta non è reale se la mano che la produce non è più che addestrata per farlo.

Ciò che la telemedicina non può cogliere

La cardiologia non vive di immagini isolate. Vive di sfumature: il respiro corto che compare all’improvviso, la lucentezza della pelle, il colore delle labbra; vive di quella postura che non convince, di quel sudore freddo che si insinua come un segnale anticipatore. Tutto questo, il cardiologo remoto non lo vede. Non può sentirne il peso né può ascoltarne il ritmo e neppure coglierne la fragilità. La telemedicina riduce il paziente a dati e figure: un cuore che pulsa sul monitor, un tracciato che scorre. Ma la clinica, quella vera, nasce dall’incontro fisico, dall’intuizione che sorge davanti al letto, dallo sguardo che intercetta il cambiamento prima che appaia nei parametri. Questa componente “umana”, quella che salva davvero, la telecardiologia non la possiede.

La velocità promessa che diventa attesa

Si racconta spesso che la telecardiologia sia immediata. La pratica è ben diversa: bisogna chiamare lo specialista, attivare il collegamento, controllare l’audio, poi verificare il video, dopo, inviare le immagini, attendere il consulto e infine leggere la risposta. Minuti che sembrano pochi sulla carta e diventano eterni nella stanza di un paziente che si aggrava. La cardiologia d’urgenza non concede pause: un infarto non aspetta, un’aritmia non fa cortesie, un edema polmonare non rallenta la sua corsa. Ogni interruzione del flusso decisionale è un passo verso l’irreparabile. E la telecardiologia, proprio per sua natura, introduce passaggi che rallentano tutto questo.

Tecnologia brillante, affidabilità fragile

C’è poi un aspetto che si preferisce evitare: la tecnologia non è infallibile. Una rete che si indebolisce, una webcam che sfugge dall’inquadratura, un software che si blocca, un server che non risponde. Tutto si ferma. E quando si ferma la tecnologia, si ferma anche la diagnosi. In sala operatoria, un bisturi non smette di funzionare per colpa del segnale. Ma un consulto telematico sì. Nella telecardiologia la responsabilità è un terreno scivoloso: chi ha eseguito l’esame non è specialista; chi deve interpretarlo non ha visto il paziente; chi decide il trasferimento teme di farlo sulla base di un’immagine dubbia. Risultato: la responsabilità rimbalza da un medico all’altro. E quando la responsabilità non è chiara, il coraggio decisionale si affievolisce mentre l’esitazione prende il posto della prontezza. E l’esitazione, in cardiologia, è un vero rischio clinico, travestito da prudenza.

La più insidiosa delle illusioni è  sentirsi protetti senza esserlo

Forse il pericolo più grave non riguarda la tecnica, ma la narrazione che la circonda. Se la telecardiologia viene presentata come soluzione, si genera un falso senso di sicurezza che non protegge nessuno. È come dire: “L’Isola è al sicuro”, quando in realtà l’Isola vede meglio, ma non cura meglio. È un velo tecnologico che copre una realtà semplice ma la mano che serve, all’Elba, non c’è. E così l’immagine arriva,mentre l’intervento resta lontano, condizionato  alla terraferma.

La verità, in fondo, è elementare

La diagnosi è il primo passo ma  la cura è l’unico che salva. La telecardiologia potrà anche offrire immagini impeccabili, ma non potrà mai aprire un’arteria occlusa, cardioversionare un’aritmia maligna, drenare un tamponamento cardiaco. L’Isola non ha bisogno di uno sguardo remoto, ma di una presenza competente, stabile e vicina. Finché la terapia resterà oltre il mare, nessun monitor colmerà quella distanza. Perché il cuore, quando soffre non chiede una bella immagine: chiede una risposta immediata.

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