Le considerazioni del difensore di Alessandro Canovaro

di Cesarina Barghini*

Riceviamo e pubblichiamo integralmente una nota dell’avvocato Cesarina Barghini difensore di Alessandro Canovaro il Pr condannato a sette anni di reclusione, nel processo di primo grado che lo vedeva imputato e dove è stato riconosciuto colpevole di violenza sessuale e lesioni personali ai danni di una giovane barista. Ecco il testo:

Potrò essere più esaustiva allorchè saranno depositate le motivazioni di questa sentenza, per il momento posso solo limitarmi ad osservare che nei c.d. “reati di genere” in ognuno di noi si verifica, immancabilmente, un processo mentale mosso dalla spinta emotigena che li contraddistingue, cioè quell’elaborazione cognitiva del racconto della c.d. “vittima” che scatena umanamente sentimenti di riprovevolezza.

Alla reazione emozionale si somma poi, un’ulteriore componente, di natura ansiogena, perchè l’elaborazione cognitiva del racconto della c.d. vittima finisce quasi sempre per generare anche ansia, in un’ottica degli accadimenti del passato, del presente e del futuro, alimentati dalla forza mediatica che caratterizza questo momento storico. In questo connubio di emozioni, quindi, la tendenza a credere senza riserve alla (presunta) vittima, per l’additato autore del reato è sempre devastante.

Quando dobbiamo affrontare la disamina di reati di questo tipo, la violenza sessuale, lo stalking, i maltrattamenti in famiglia, ecc., siamo tutti assaliti dal pregiudizio. Un pregiudizio che addirittura trasforma quella figura processuale che, in tutti i procedimenti penali è qualificata accademicamente e processualmente come “persona offesa”, appunto in “vittima”.
E l’imputato sin dall’inizio assume la veste di un colpevole da condannare senza pietà.
E questo – già prima che si apra il processo – è un dato di fatto che si verifica con la precisione di un orologio, ed è acclarato dalla presenza, molto frequente in tali contesti, delle associazioni a sostegno delle c.d. “vittime” dei reati di genere, ancor prima che una sentenza definitiva le qualifichi tali.

La parola “vittima” diventa così una nozione frutto dell’alterazione della figura della persona offesa, figlia di una cultura colpevolista inquinata dalla propensione a considerare la donna come un soggetto debole, inferiore e come tale necessariamente sopraffatta dalla virilità maschile.

In questo tipo di processi, più di quanto possa accadere in qualsiasi altro procedimento, la “vittima” è essa stessa testimone indiscussa della violenza a suo dire subita, al punto da assurgere – da sola – a prova regina della colpevolezza dell’imputato. Un paradosso al quale la Giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha tentato di introdurre correttivi, in primis i parametri di credibilità: accanto ad una lettura unilaterale del racconto della vittima, si è andata affiancando sempre più con forza, la necessità che la prova testimoniale di questa figura debba essere apprezzata dal giudicante con rigore, soprattutto laddove questa vittima rivendichi anche una posizione risarcitoria, cioè si costituisca parte civile, abbia quindi un interesse economico concreto e reale ad un certo esito del processo .

Ecco che dovrebbe entrare a gamba tesa, nel processo, la severa valutazione dell’attendibilità del racconto di quella (presunta) vittima. E in un processo dove il racconto della persona offesa non sia coerente, logico, attendibile, nè sorretto da altrettante coerenti logiche e attendibili risultanze istruttorie, tra le quali dovrebbe primeggiare la prova scientifica (nel caso di specie, l’esito di una perizia disposta nel contraddittorio delle parti dimostra l’inesistenza del DNA dell’imputato, proprio in quelle parti intime che si lamentano violate), una sentenza di condanna desta importanti perplessità, già prima di conoscerne le motivazioni.

Non minori dubbi suscita la quantificazione in € 50.000 del presunto danno subito, in assenza di qualsivoglia prova del relativo trauma lamentato e delle sue conseguenze ( e sotto questo profilo si apprezza la scelta del Collegio nel non aver concesso alla parte civile la c.d. “provvisionale” che, in quanto immediatamente esecutiva, avrebbe costretto l’imputato a versare una porzione del risarcimento, senza alcuna certezza di recuperarlo al momento della riforma della sentenza ).

Tutte perplessità che avrebbero dovuto far brillare, alla luce del groviglio di contraddizioni emerse nel corso di questo processo, quella stella polare che, come insegna la Costituzione, deve illuminare ogni aula: la condanna oltre ragionevole dubbio, in parole povere: nel dubbio, assolvi.

Valuteremo, quindi, al momento del deposito delle motivazioni, come il Collegio abbia potuto superato questo macigno, anticipando sin d’ora che la quantità ciclopica delle risultanze assunte nel processo a favore della presunzione di innocenza, impone necessariamente la disamina della fattispecie da parte della Corte d’Appello.

Avv. Cesarina Barghini

2 risposte a “Le considerazioni del difensore di Alessandro Canovaro

  1. Cesarina Barghini Rispondi

    Sig. Pugi, non so che mestiere faccia Lei, vedo che si spinge su considerazioni giuridiche in modo un pò azzardato, ma Le assicuro che la Costituzione Italiana Le consentirà di parlare di stupratore e di vittima solo quando la sentenza sarà definitiva, momento in cui cesserà l’efficacia della presunzione di innocenza, che a tutt’oggi, anche per Alessandro Canovaro è viva e vegeta nel nostro ordinamento, appunto perché la sentenza, di cui peraltro non abbiamo neanche le motivazioni, non è definitiva. Si vada a leggere l’art. 27 😉

    16 Novembre 2025 alle 0:51

  2. Alessandro Pugi Rispondi

    Risulta strano come le parole vengano piegate ai propri interessi personali. L’avvocato indica il processo mentale che si attiva al racconto della vittima come processo mediatico e sentenza pregressa nello stesso tempo ma intanto continua ad appellare la persona offesa dal reato come “c.d. vittima” o “presunta vittima”. Con questo non tenta di mischiare le carte agli occhi dei lettori e fare lo stesso gioco? Ricordiamo che la sentenza di primo grado è cmq una sentenza e definisce i RUOLI, in questo caso in un aggressore/stupratore e una persona offesa dal reato/ VITTIMA, che poi si ricorra in appello, al momento, poco importa. La sentenza stabilisce con motivazioni un colpevole e una vittima, appunto, con precisione e certezza, almeno in primo grado, e se la parte colpevole o la persona offesa dal reato non ricorressero in appello la sentenza diverrebbe DEFINITIVA, questo è giusto ricordarlo, scolpendo quei termini nella pietra. Quindi chiamiamo, al momento, le persone con i loro veri nomi: Stupratore e vittima dello stupro, saremo in tempo a ridefinirli successivamente, poiché come si sa, la giustizia non è perfetta.

    15 Novembre 2025 alle 8:57

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