Il demone della poesia: interloquio col poeta Jonathan Rizzo

di Manuel Omar Triscari

Radici nel salmastro mediterraneo del Principato Elbano, studi storici nel Granducato Toscano, formazione poetica e palestra di vita nei boulevard parigini, bibliografia irrilevante: così si presenta il poeta Jonathan Rizzo. Un animale apolide. Un gran bastardo senza casa, col cuore lasciato in ostaggio in un paradiso perduto chissà dove nella tradizione dei portatori di luce.

Ospite con disonore della nuova antologia di poeti fiorentini “Affluenti” (Ensemble, Roma, 2016) ed autore unico dei romanzi folli “L’illusione parigina” (Porto Seguro, Firenze, 2016) ed “Eternamente errando errando” (La Signoria, Firenze, 2017) e della silloge poetica “La giovinezza” (Ensemble, Roma, 2018) – nel 2019 vince il premio poetico “Le Parole Nel Cassetto” promosso dal caffè letterario Le Murate di Firenze. Dal 2020 alla faccia delle pandemie mondiali dirige e presenta il programma radiofonico “Al bar della poesia” sulla web radio Garage Radio ed è direttore artistico della programmazione culturale del caffè letterario “Volta Pagina” di Pisa. Per non farsi mancare nulla in piena prigionia viene pubblicato nell’antologia poetica “Congiunti” per le edizioni Ensemble di Roma e chiude l’anno con il suo quarto libro personale, “Le scarpe del flaneur”, una silloge di testi scritti nella sua illusione parigina alla ricerca della tradizione del poeta camminatore, sempre con le edizioni Ensemble di Roma. Parole e voce, corpo e anima, sempre in viaggio, sempre in fuga, poeta senza casa, lo potreste trovare in qualche bettola a leggere le sue poesie disperate con l’accompagnamento musicale dei soliti galeotti delle sette note col progetto di poesia e musica “Jhonnysbar (Nuova gestione)”, o in quei luridi postriboli di cui fingete di non avere memoria, ma dove in verità avete incontrato le vostre compagne d’altare. Ecco: probabilmente sarà lì con loro a bere, seduto in fondo al bancone, dove c’é sempre posto, sperperando i vostri soldi e brindando a voi mentre risponde alle nostre domande giusto per il gusto di farvi incazzare.

La Sua ultima opera edita è “Anamnesi famigliare” per le edizioni Puntoacapo. Qual è stato l’input creativo che Le ha stimolato questa silloge e che cosa può dirci sul titolo?

Nella tradizione degli scrittori americani del primo Novecento, la cosiddetta generazione perduta, racconto attraverso i libri la storia della mia vita. Certo non perché speri o creda che possa essere argomento di appassionamento popolare, ma perché è quello che conosco e di cui riesco a scrivere. Questo libro è coinciso con quella fase della vita in cui maturità e saggezza finalmente permettono di discernere quali sono le persone umanamente meritorie e riconoscere la influenza che hanno avuto nel formarsi della personalità del soggetto. Un libro che prova a essere specchio della vita, per cui composito coacervo di diversità fatto di racconti, poesie e contributi umani quasi saggistici sulle figure chiavi della famiglia (la madre, il padre, i fratelli ed i nonni) a cui oltre al sottoscritto hanno partecipato aggiungendo la propria esperienza umana di vita nel ruolo specifico famigliare di loro riferimento nella vita toltisi la maschera di intellettuali, artisti e scrittori tra poeti e critici Francesca Del Moro, Giorgio Linguaglossa, Gianpaolo Mastropasqua, Vittorino Curci e Gabriella Musetti. Firme per amicizia personali che arricchiscono il peso ed il senso di ricerca di comprensione attraverso la narrazione scritta di esperienze di vita personali e reali su queste figure accanto cui nasciamo, cresciamo e moriamo nel corso naturale della vita, arrivando ad interpretarle noi stessi. Da qui il titolo: l’anamnesi in medicina è lo storico delle malattie famigliari per comprendere quali possono essere le cause di una determina malattia. Visto che la vita è una malattia a lunga degenza e a diagnosi terminale, ognuno di noi ha delle cause e queste sono le mie. Ma non è un “j’accuse” il mio: piuttosto un disperato tentativo di comprendere l’umanità e gli errori di queste persone. Una lettera d’amore alle loro debolezze, le debolezze di ognuno di noi.

 

Quella di questi componimenti è una scrittura perturbante, ma anche, a tratti, dall’ironia sottile. Bellissima la tessitura del linguaggio, godibili le atmosfere talvolta evanescenti, evidente la tendenza al dire e non dire, potenti le chiuse. In quali di questi pregi di scrittura Si riconosce di più?

Dovrebbero dirlo i lettori.

Quando, come e perché ha iniziato a scrivere?

Boh… si perde nella notte dei tempi. Sarà arrivato un momento in cui mi sono onestamente reso conto che fosse l’unica cosa che fossi a malapena capace a fare, ed il solo momento in cui per un attimo mi riallineassi dentro e fossi scrivendo sempre solo per un istante il vero me stesso.

Qual è l’identità di intellettuale che più La riflette? E quali sono le opere a cui tiene di più e perché?

“Intellettuale” sia come aggettivo o come sostantivo mi mette a disagio quando qualcuno lo usa su sé stesso, per cui per buongusto taccio, ma volentieri parlo di letteratura e poesia. Mi siedo al bistrot a bere con Baudelaire, Whitman, Campana e Bukowski. Mi chiamano “ragazzo” e mi fanno pagare e portare da bere al tavolo, ma mi siedo con loro ed ascolto. Intanto il vino scivola copiose dalle coppe alle gole in festa.

Leggendo i Suoi versi la prima impressione è stata quella di una scrittura che affonda dentro la vita e non ha paura di dire. In che rapporto sono vita e scrittura? Quale viene prima (se davvero esiste una preminenza dell’una sull’altra)?

Eviterò le noiose polemiche dell’ambiente letterario sul dibattito specifico a riguardo in questo paese ridicolo e morto. Preferisco concentrarmi sulla mia esperienza personale, e mentre i giovani vecchi poeti accademici cercano il loro stile, io passeggio ed osservo la vita che accade e scorre provando a disegnarla con le parole lì nell’unico luogo dove si trova, fuori da me stesso ed en plein air. Come ho scritto prima vita e scrittura sono, almeno per me, inscindibili e non vedono preminenza dell’una sull’altra perché ritengo che uno scrittore di sola narrativa possa fare a meno della realtà, ma un poeta senza la vita sia solo bello stile e bella grafia, cioè un vuoto contenitore, ma sopratutto penso che uno scrittore vero non scinda narrativa da poesia, vita da scrittura.

Ogni autore scrive per tutta la vita la stessa opera. Ammesso che sia vero o comunque condivisibile, che cosa muove la Sua scrittura? C’è un tema, un filo conduttore o uno stato d’animo che ispira la Sua scrittura e che non manca mai in nessuna delle Sue opere?

Non so se un autore scriva per tutta la vita la stessa opera, ma sono abbastanza convinto che un artista qualsiasi opera crei, di qualsiasi natura e tema, sia sempre compia una forma di autoritratto. Il fil rouge che si possa trovare nei miei libri è la solitudine dei personaggi e l’incomunicabilità umana, credo.

Ezra Pound diceva che “i poeti che non s’interessano alla musica sono, o diventano, cattivi poeti”. Qual è il Suo rapporto con la musica e quanto la Sua poesia è influenzata da essa?

Su questa cosa Pound aveva indubbiamente ragione, almeno su questa. In Italia si fa un gran riempirsi la bocca sulla musicalità della poesia, ma è stato proprio il nostro paese storicamente a nascere poeticamente scindendo la musica dalla parola scritta alla corte di Federico II a Palermo nel tredicesimo secolo, e da lì è rimasta la tradizione di negare la musica suonata perché già la parola scritta ha la sua musicalità naturale. Piccolo bluff che fa credere ai tanti Salieri di essere dei Mozart. Io personalmente quando scrivo sono schiavo della penna, lasciandomi trascinare dove mi conduca la danza e la sua musica. La musica è matematica. Sono il linguaggio di Dio, la chiave dell’Universo. Lo scrivo in ginocchio da ateo. Solo nella musica per un attimo tutto è, e pure tu puoi in quell’attimo essere. Questa è armonia cosmica. La poesia ha solo da imparare, ed io con lei.

Montale sosteneva che “La poesia è un mostro: è musica fatta con parole e persino con idee: nasce come nasce, da un’intonazione iniziale che non si può prevedere prima che nasca il primo verso”. Quando crea in poesia come procede? In altre parole, come si articola il Suo processo creativo?

Ed anche Montale ha ragione da vendere. La poesia è un mostro, ed aggiungo io, i poeti sono deformi. Solo che Eugenio intendeva in senso classico del termine, per cui “mostro” come “eccezionale”, oltre la normalità. Io invece lo intendo in accezione critica. Il mio processo è da ‘vittima’, subisco la scrittura come necessità respiratoria e memoria del buono a cui potrei ambire e fallisco continuamente nel farlo. Scrivere per conservare un qualcosa che non deve essere perso, o per liberarsene. Scrivere come atto di esorcismo. La poesia come dèmone. Lo straordinario di cui sopra. L’esorcismo per evocarlo.

Che cosa rappresenta per Lei la scrittura?

Una volta era un’amante esigente che pretendeva tutto e non restituiva indietro quasi niente. Ora che vedo che troppi beccano alla sua fontana, mi sono disinnamorato. Non soffro più per la mia poesia, non me ne frega più niente. Quella brutta che domina invece mi uccide.

Che cosa é per Lei la poesia? Una definizione.

La cosa in cui sono meno scarso, ma comunque mi hanno ucciso la voglia di applicarmi.

Che rapporto c’è oggi tra poesia e società?

Nessuna.

Quali sono gli autori e le letture che hanno maggiormente condizionato e influenzato la Sua scrittura?

I miei amici del bar di cui ho detto sopra.

Che rapporto hai con gli altri scrittori, di oggi e di ieri?

Con quelli morti ottimo. I vivi sono specchi, e come tutte le superfici riflettenti il vanitoso si rimira, ed il critico vede solo difetti. Io cerco di evitarli i poeti italiani contemporanei, ma studiandoli da lontano mi formo una mia idea critica onesta. Non fanno tutti schifo come scrittori, e cosa infinitamente più importante, qualcuno ha anche dei fili di umanità da abbracciare. Certo sono sempre esseri umani come me, per cui pieni di difetti proprio come me.

Crede nell’utilità dei corsi di scrittura creativa? Prima del Suo esordio ha seguito un corso del genere? Ha trovato veri e propri maestri all’interno di tali corsi?

Per l’amor del cielo che boiate, che truffe. Se c’è una cosa che non puoi insegnare è la poesia. Per trovarla in sé e da lei farsi condurre fuori da sé non ci sono regole scritte. Ti posso raccontare la mia esperienza, come ci sono riuscito, come ci riesco, come ci provo quando ancora scioccamente ci voglio provare, ma vale per me, solo per me. I miracoli non sono replicabili. La liturgia serve alla Chiesa per tenere in schiavitù i fedeli. I matti sono i prediletti di Dio, e non la impari la follia. Abbiamo tanti poeti replicanti, tante fotocopie di Maestri di Maestri di Maestri. Ora vomito.

Che cosa ha imparato dopo dieci anni di trincea poetica (come Lei stesso la definisce) in Italia?

L’ambiente poetico italiano è truccato. I concorsi sono pilotati dalle case editrici e i cosiddetti ‘Maestri’ nell’ombra si muovono in logiche da boudoir fra etero ed omo. Non a caso l’ambiente poetico italiano è tutto concentrato sugli under 35 e gestito dagli over 50. Io da maschio etero di 43 anni con un modo di scrivere lontano dalla tradizione italiana sono fregato su tutta la linea. Per cui consiglio di dare via il culo a i Maestri ‘giusti’ e le case editrici ‘giuste’, se lo vogliono almeno loro. Non serve scrivere bene, basta leggere i nomi che ti dicono loro, o almeno dirlo pubblicamente ogni volta che si è interrogati. Poi scrivere come indicano i detentori del canone, della linea, della scuola etc., insomma ubbidire da bravi soldatini di stagno. Questo se uno vuole essere un poeta italiano contemporaneo à la page. Altrimenti toccherà accontentarsi di essere liberi ed onesti.

Crede che il suo nome rimarrà e sarà citato in futuro tra i maestri del suo genere e della sua tipologia letteraria? Perché?

[Ride sguaiatamente] No, assolutamente no. E poi chi se ne frega anche di questo. Quello che succede dopo la morte è inutile. La gloria in vita ha dei vantaggi materiali e pratici. Dopo uno ci fa il brodo.

Per chiudere, una domanda banale ma che non si può non fare a ogni scrittore che si rispetti: come è quando ha capito che la scrittura La chiamasse a sé?

Eh boh…dovevo essere ubriaco.

 

 

 

Manuel Omar Triscari.

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