Capoliveri

Lunedì 6 ottobre ultimo incontro per “Autorə in Vantina”

di Angelo Airò Farulla

Ultimo incontro del 2025 per Autorə in Vantina, rassegna letteraria organizzata dal Comune di Capoliveri e dalla Libreria MardiLibri di Portoferraio, in collaborazione con la Pro Loco di Capoliveri. Nell’ultima tavola rotonda di quest’anno – prevista per lunedì 6 ottobre, ore 18:00, presso il Teatro Flamingo – s’incontreranno Nunzio Marotti (ex-insegnate di liceo, giornalista pubblicista e poeta), Elena Di Mauro (docente di lettere nella scuola secondaria di primo grado) e Claudio Damiani, poeta di origini elbane pluripremiato, amato dal pubblico e dalla critica, tradotto in numerose lingue, da qualche mese in libreria con “Rinascita” (Fazi), al quale è andato il Premio Europa in Versi e in Prosa per la sezione “poesia edita”.

Laureato in Lettere con una tesi su Lorenzo Calogero, Damiani emerse giovanissimo dal clima culturale che gravitava intorno alla rivista “Braci” (1980-1984), da lui fondata insieme a Beppe Salvia, Arnaldo Colasanti e altri, in opposizione alla distruzione del linguaggio operata dalla neoavanguardia, come agli strascichi dell’ermetismo. In quel contesto si gettarono i semi per una sorta di rinascita linguistica e morale della poesia italiana, una rinascenza che – per quanto concerne Damiani – guardava all’umanesimo del Petrarca, ai classici cinesi, a un certo classicismo latino ormai non più barbaro, all’aurea mediocritas di Orazio.
Il suo ultimo libro (il citato “Rinascita”) è un volume in prosa con alcune parti in poesia. L’opera riprende passi da altri libri precedenti (“La miniera” 1997, “Eroi” 2000, “Il fico sulla fortezza” 2012, “Prima di nascere” 2022 – tutti editi da Fazi). C’è chi ne ha parlato in termini di prosimetro, forma non troppo praticata nella letteratura italiana (ne restano modello pressoché unico del secolo scorso i “Canti Orfici” di Campana), utilizzata dai poeti-filosofi come il Campanella, o dal Dante della “Vita Nova”.
Attorno alle suggestioni di questo testo si svolgerà la discussione di lunedì. Il tema proposto per l’incontro è infatti “La miniera dell’infanzia”, espressione che raccoglie come in un’endiadi i due cardini di “Rinascita”, potendosi intendere nel testo “infanzia” e “miniera” quasi come sinonimi, come due aree d’immersione e riemersione, nel passato e nel fondo della terra, ovvero nelle profondità del luogo natale, dove l’espressione “luogo” può essere sia quella concreta dello spazio esterno, sia quella interna del ricordo.

In questo libro, Damiani narra alcuni eventi della sua infanzia, frammisti ai ritorni da adulto nella miniera di bauxite di San Giovanni Rotondo gestita dal padre. Qui l’autore nacque e trascorse i primi anni di vita. È quindi questo il luogo per lui «dove tutto è cominciato», dove venne allattato, come un antico romano, da una mucca «molto materna», che si dispiace di non aver conosciuto.

Il racconto ampiamente descrittivo che si svolge nella prima parte dell’opera assume a mano a mano toni quasi fiabeschi, in colloqui esistenziali tra il poeta e il cane Tamara, i cavalli che lui credeva morti, le falene che tanto lo spaventavano quand’era bimbo, il verdone che ha provato a uccidere con un tiro di fionda, l’eucalipto che ricopre il rivo sottostante di fiori gialli.
Sin da subito, luogo e tempo (miniera e infanzia) si fanno atlanti e basamento dei significati massimi dell’esistenza: vita, morte, amore, paura, il rapporto con gli altri e con la natura. Con la sua tipica semplicità di dizione, Damiani si muove su registro piano, utilizzando un vocabolario elementare, perché è con gli elementi primi (e più vasti?) del sentimento e del reale che vuole costruire la sua opera. Fruga in territori lontani ma ancora presenti, in uno scenario che non è stabile, non è più quello di allora, non è ancora quello dell’oggi, che forse non è mai stato, o è stato diversamente. Le incertezze del ricordo sembrano arrestare lo scorrere del tempo, sovrapporre i tempi, rendere unico il presente: «Io non me la ricordo per niente la mentuccia, ma può essere che non l’avevo notata. Qui lei cresce, probabilmente, da milioni di anni».

Sotto la superficie, sotto «lo strato sottilissimo in cui si è depositata la mia infanzia», c’è la minera con le sue «infinite gallerie», dove lavorano i minatori che Damiani non ricorda di aver mai visto. «Sotto la terra c’era un altro mondo». Un mondo che poteva anche confondersi con l’inferno.

Detto per inciso, anche un’altra miniera, quella elbana di Rio, ispirò parte dei lunghi versi di Luigi Berti, anche lui tornato «dopo una lunga assenza sul luogo ove le forze della natura avevano costruito per noi il mondo dei mondi e le forme d’una generazione»; anche lui preso da un’opera di scavo nella memoria e di intima, trasfigurata restituzione del reale. Ma il mistero delle profondità non è caricato in Damiani di grovigli semantici, o di figure araldico-ermetiche come in Berti; piuttosto attestato nella sua pura esistenza, nella vita stessa, così com’è. «Mi sedetti su quei gradini con altri, e stavamo a parlare o a mormorare mentre la sera scendeva, l’ombra si faceva più densa e i fiori lentamente si aprivano». Il mistero è preso naturalmente, come l’aria che circola nelle cose, l’aria di quand’era bambino, l’aria attraversata da un qualcosa «che vibrava […] / in sospensione, invisibile forse / e che passava tra un invisibile e l’altro». È tutto nell’antichità del mondo, nella presenza, nelle farfalle notturne di vaga ascendenza pascoliana che stavano «strette contro la parete oltre la linea possibile, come avessero varcato la parete e fossero metà nel visibile, metà nell’invisibile».

Damiani siede scrivendo, come un mistico attratto dalla luce, sui gradini della sua vecchia casa in abbandono, apparentemente lontano dall’oscurità. In quest’ultima opera affiorano ancora le lacune della comprensione, le paure, i buchi neri della realtà, il «fondo di un altro tempo»; tutto ciò fa parte della natura, è nella sostanza del suo integrale: e l’esperienza di questa totalità sembra concessa a chiunque. Ecco la sorniona classicità di Damiani. Non c’è frattura nevrotica nella sua opera (e per quanto poco io conosca l’uomo, poeta e poesia mi sembrerebbero coincidere): direi, forse azzardando, che in lui l’alieno è familiare. Egli parla con la voce dei saggi. Il suo dettato è sempre in bilico tra la banalità più assoluta e la rivelazione universale o l’illuminazione metafisica. La sua forza di poeta risiede forse nel credere, nel dar fiducia a frasi normali, a sentenze quasi scontate che nessuno, da un livello a lui pari, metterebbe in versi. Nell’aver fiducia nell’essenza delle cose, tanto che nella sua opera sembra non esserci lavoro a monte, che non ci sia fatica, come in quella dei geni, e tutto sembra scaturire come da una fonte chiara e generosa, semplice, naturale.

Angelo Airò Farulla

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati

Alessandro Orlandini alla fiera del Libro di Roma da domani

Lo scrittore fantasy dell'Elba presenta il secondo capitolo della nuova trilogia fantasy

Giornata contro la violenza sulle donne da Mardilibri

Dalle 16:30, lettura di albi illustrati coi più piccoli, poesie e riflessioni con tanti ospiti

“Sacre specie animali” l’ultimo libro di Angelo Airò Farulla

Un romanzo incentrato sulla questione della presenza dei cinghiali nelle aree urbane